Carcere Le Vallette di Torino, 1995.
Un’altra giornata iniziava nello stomaco dell’istituzione penitenziaria, un luogo dove il tempo si accartocciava su se stesso, lasciando dietro solo polvere e rimpianti. Nei corridoi asettici, impregnati dell’odore acre di sudore, urina e disperazione, rimbalzava una voce sottile, quasi un sussurro. Si diceva che al Ministero della Giustizia avessero in mente un’idea brillante, un piano studiato da menti più abituate alle scrivanie laccate che alla polvere della realtà: uniformare l’abbigliamento dei detenuti. Il progetto sembrava semplice nella sua logica burocratica. Una divisa uguale per tutti, in un colore neutro, quasi spersonalizzante, capace di appiattire le differenze e garantire un ordine visivo. Le guardie, già stanche e disilluse, avrebbero evitato errori grossolani: un detenuto scambiato per un agente, un inganno da parte di chi aveva imparato a muoversi nel sistema come un topo in un labirinto. Una misura tanto pratica quanto apparentemente innocua.
Eppure, quella geniale trovata non vide mai la luce. Ma non perché fosse tecnicamente complessa, dispendiosa o politicamente controversa. No, la verità era molto più inquietante. I furboni del Ministero, forse durante una pausa caffè, ebbero un’illuminazione: rendere i detenuti indistinguibili tra loro avrebbe avuto un effetto collaterale imprevisto. I reclusi avrebbero cominciato a guardarsi, a contarsi, a riconoscersi. La matematica non mentiva. I reclusi erano tanti, molti di più delle guardie che li sorvegliavano. Numeri schiaccianti, un rapporto sproporzionato. E in quei numeri c’era un’energia latente, pronta a esplodere come polvere da sparo. La consapevolezza, si diceva, è il primo passo verso la ribellione. E al Ministero, dove ogni rischio si misura con il righello della paura, decisero che era meglio lasciare che i detenuti restassero frammentati nelle loro individualità, isolati, persi in una giungla di abiti usurati e identità in frantumi. Così, il progetto morì prima ancora di nascere. Come tante altre cose, affondò nel mare limaccioso delle non-decisioni, protetto dall’indifferenza di chi non avrebbe mai messo piede dietro quelle sbarre. E nei corridoi di Le Vallette, la voce divenne un’eco, un segreto sussurrato con un ghigno amaro, mentre la vita in carcere continuava nel suo ciclo grottesco e immutabile.
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