Ci sono persone che entrano in una stanza e la riempiono di qualcosa che non è nostro: tensione, rabbia, ansia, frenesia, negatività. E spesso, senza accorgercene, iniziamo a respirare come loro, a pensare come loro, a sentire ciò che loro stanno vivendo. È il prezzo della sensibilità, dell’empatia, della capacità di percepire ciò che vibra intorno a noi. Ma non deve diventare un peso: la mindfulness può trasformare quell’ipersensibilità in una risorsa stabile, invece che in una fune che ci trascina.
Essere colpiti dalle emozioni degli altri non significa essere deboli: significa avere antenne molto affinate. Il problema nasce quando assorbiamo troppo, quando confondiamo i confini e iniziamo a reagire a qualcosa che non ci appartiene. La pratica consapevole aiuta proprio qui: non ci chiede di “chiudere il cuore”, ma di distinguere tra ciò che sentiamo e ciò che arriva dall’esterno.
Il primo passo è riconoscere il momento esatto in cui l’emozione dell’altro ci tocca. Spesso succede in un attimo: una parola detta male, un tono brusco, un’agitazione che coinvolge tutto l’ambiente. La mente si attiva e il corpo segue. La mindfulness invita a osservare questa reazione come un fenomeno, non come un comando. Si può notare il nodo allo stomaco, il petto che si stringe, le spalle che salgono. Queste sensazioni sono reali, ma non dicono nulla su di noi: parlano del nostro sistema nervoso che risponde a uno stimolo esterno.
Il respiro diventa la prima forma di confine. Non per isolarsi, ma per ritrovare il centro quando la presenza degli altri ci spinge fuori asse. Inspirare lentamente e lasciare uscire l’aria più a lungo di quanto entri crea una micro-distanza emotiva: una zona sicura in cui puoi tornare a percepirti. Quella distanza non è freddezza: è lucidità.
Un esercizio efficace è visualizzare il proprio spazio interno. Non una barriera rigida, ma un perimetro morbido: un cerchio che ti contiene e ti permette di restare in te stessa anche mentre qualcuno vicino a te vive un’emozione forte. Ogni volta che senti che qualcosa ti sta invadendo, puoi richiamare questa immagine: “Questo è il mio spazio. Posso ascoltare, ma non devo assorbire.”
La consapevolezza aiuta anche a distinguere tra empatia e responsabilità. Sentire ciò che l’altro sente è empatia; farsene carico è confusione di ruoli. Non è compito tuo risolvere l’emozione dell’altro, né portarne il peso. La mindfulness ti insegna a osservare ciò che provi senza agire automaticamente per placarlo. Puoi restare presente, attenta, gentile — senza perderti.
Il grounding, in questo contesto, diventa una pratica fondamentale. Quando l’emozione dell’altro ti invade, sposta l’attenzione a un punto stabile del tuo corpo: i piedi sul pavimento, le mani appoggiate, la sensazione dell’aria sul viso. Questi dettagli ti riportano alla tua esperienza, non a quella altrui. Sono un richiamo silenzioso al fatto che tu esisti anche quando l’emotività degli altri riempie lo spazio.
Un altro passaggio potente è riconoscere il diritto a dire “basta”, anche solo interiormente. Non tutti gli stati emotivi che gli altri portano meritano di entrare nel tuo mondo. A volte la scelta più mindful è interrompere l’assorbimento: spostare l’attenzione, cambiare posizione, prendere un respiro più ampio. Non è egoismo: è cura di sé.
La verità è che la nostra sensibilità non è qualcosa da correggere, ma da educare. La mindfulness non ti chiede di indurirti, ma di radicarti. Ti ricorda che puoi ascoltare senza dissolverti, essere presente senza diventare una spugna, accogliere senza sacrificare il tuo equilibrio.
Le emozioni degli altri continueranno a circolare. Alcune saranno leggere, altre tempestose. Ma, con la pratica, non ti travolgeranno più. Imparerai a restare nel tuo centro anche quando intorno tutto si muove. E in quella calma — che non dipende dagli altri, troverai una libertà che nessuno può portarti via.

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